Il bar delle Folies-Bergère
Sembra quasi di percepire i pensieri che adombrano lo sguardo di Suzon.
La cameriera, ritratta da Èdouard Manet nel suo ultimo capolavoro datato 1882 e conservato alla Courtauld Gallery di Londra, interpreta un ruolo da protagonista all’interno della scena, in una tela che a tratti è realista, e a tratti risulta sfalsata dallo specchio posizionato dietro di lei, creato appositamente dall’artista per giocare con riflessi ingannevoli.
Catturata nel momento in cui ricambia la vista del suo osservatore, Suzon sembra sola, oltre che impassibile. Indossa una giacca di velluto scuro cangiante e adornata di un pizzo impalpabile con l’ampia scollatura nascosta da un mazzolino di fiori, così da abbellire gli abiti già eleganti e armonizzarsi con la natura morta ritratta sotto la sua figura.
Manet era solito dipingere nature morte e la carica di realismo che sprigiona dai mandarini posizionati dentro l’alzatina di vetro, così come, in contrasto, la tenue tonalità delle due rose immerse nel bicchiere d’acqua, rimandano a un effetto visivo sorprendente.
Nota d’interesse sono i monili che Suzon indossa, il bracciale sollevato, fermo sull’avambraccio, probabilmente le impedisce i movimenti mentre serve i clienti oltre che la caratteristica collana già in uso in epoca georgiana, un laccetto di velluto con pietra che viene ripreso da Manet per risaltare l’opalescenza del collo della sua modella.
L’impressione che suscita il celebre dipinto si basa su un equilibrio compositivo che passa dalla posizione geometrica a triangolo della cameriera con le braccia aperte e le mani appoggiate sul bancone, all’ordine quasi simmetrico delle bottiglie disposte sui due lati del marmo.
Da questa visione centrale l’artista sposta poi lo sguardo più alla zona esterna della tela, trascinando i volumi verso la parte destra. Si tratta quasi di un inganno prospettico, come se a questo punto Suzon si sdoppiasse: la sua parte retrostante riflessa sembra infatti che stia interagendo con un gentiluomo quando invece lei si mantiene assorta e malinconica dinanzi a chi la osserva.
La parte rimanente dello spazio Manet la riempie mostrandoci una sala affollata di ospiti, qualcuno dettagliato e riconducibile a persone che il pittore conosceva personalmente, altre figure invece abbozzate, sempre comunque eleganti e che nell’insieme evocano il brusio atmosferico e fumoso che doveva respirarsi all’interno. Così come i lampadari di cristallo e le sfere luminose appese alle pareti diffondono la luce sulla scena rischiarendone i dettagli. Singolare l’angolo in alto a sinistra dal quale spuntano gli stivaletti verdi della trapezista che si sta esibendo in quel momento, anche se gli spettatori non sembrano avere gli sguardi rivolti in su.
Una sensazione quasi disillusa, statica, di stanchezza con la quale l’artista forse conviveva e che ha così bene espresso negli occhi di Suzon.
A quel tempo Manet era già malato. Il dipinto fu soltanto abbozzato all’interno del locale e finito poi nel suo studio. Affaticato dal decadimento fisico, spese le sue ultime forze per stendere le pennellate di un’opera presentata al Salone di Parigi e ancora una volta accolta tiepidamente dalla critica.
Un capolavoro finale, parte di una carriera stilistica che invece oltrepassa le previsioni dei suoi detrattori per consegnarlo poi, come noto, alla Storia.
Sara Matilde Cavallaro